L'Eterno
Non ricordo bene quando accadde, anche se probabilmente era inizio primavera, perché vestivo leggero, ma avevo freddo.
Quel che invece ricordo perfettamente è che fu tanto tempo fa, anni, intendo. Attraversavo un periodo disilluso della mia vita, uno dei tanti, non ero perciò soggetto ad improvvisi innamoramenti, né depressioni malinconiche, e conseguente stesura di poemi in versi liberi. Cinico, insomma.
Quel giorno stavo passeggiando in città, senza una meta precisa, così, giravo per le strade immaginando di essere in Alaska, con la testa che mi doleva per le troppe sigarette e le scarpe che facevano clic-clac sui marciapiedi.
Mi ritrovai a passare davanti alla chiesa, e subito ebbi prurito alla schiena -mi succede sempre, quando passo davanti alle chiese. Dato che sentivo troppo freddo per tirare fuori le mani di tasca e grattarmi le scapole, decisi di voltare a destra, per la via che portava all'ufficio postale.
Non che dovessi spedire una lettera, né pagare qualche bolletta, ma sempre meglio che rimanere troppo a lungo davanti alla chiesa.
Presi dunque la strada delle poste e, dopo una ventina di metri, notai un insolito formicolare di gente, qualche decina di metri davanti a me, insolito per il mio paese, intendo, dove la gente va in giro al massimo in gruppi di tre.
Mentre mi avvicinavo a quel viavai, vidi che, nel piazzale prospiciente uno dei tanti palazzi tutti uguali che costeggiavano la strada, alla mia destra, erano stati sistemati dei tavolini apparecchiati, ognuno di essi per quattro persone: quel genere di tavolini che si vedono, d'estate, fuori dai bar.
Intorno ad ogni tavolo c'erano, appunto, quattro persone. Doveva trattarsi di una festa di compleanno, o stronzate del genere, un fidanzamento, una riunione massonica, che ne so? Riconobbi qualcuno là in mezzo, così decisi di chiedere.
Era in effetti una festa di fidanzamento, e i due fortunatissimi esseri per i quali si era radunata tutta quella gente -gente che, magari, non vedevano da anni, ma che non aveva saputo resistere alla prospettiva di una mangiata- erano la cugina del mio migliore amico di allora, ed un mio vecchio compagno di classe delle elementari, Antonello. Quest'ultimo mi vide, e mi invitò a rimanere.
Dato che non avevo niente di meglio da fare, e neanch'io poi sapevo resistere alla prospettiva di una mangiata, cominciai ad aggirarmi intorno, alla ricerca di un posto a sedere, in un tavolo possibilmente non occupato da gente sgradevole. Nella mia deambulazione -devo avere fatto dei chilometri- giunsi infine a QUEL tavolo.
In senso antiorario, cominciando da chi vi pare, c'erano: un ragazzo di cui non conoscevo il nome, una ragazza della quale non ricordavo il nome, Emilio e Patrizia.
Patrizia mi notò subito, ma non diede a vedere di essere sorpresa, o turbata (e d'altronde non me lo sarei comunque aspettato). Anche Emilio mi vide, e fece una delle sue solite facce del genere "sembro un aspirapolvere e non riesco a capire perché Patrizia abbia scelto me, ma lo ha fatto, e allora che cazzo vuoi tu, perché non sgommi e fili al largo?".
Non ci badai, girando attorno al loro tavolo e proseguii, volgendomi ogni tanto per guardare se lei mi seguisse, con lo sguardo e se Emilio avesse abbandonato la sua espressione "sembro un aspirapolvere e non riesco a capire perché Patrizia abbia scelto me, ma lo ha fatto, e allora che cazzo vuoi tu, perché non sgommi e fili al largo?".
Naturalmente Patrizia non mi guardò per niente, né Emilio rinunciò all'espressione di cui sopra.
Mi diressi verso il garage della casa, dove laboriose massaie stavano preparando il rinfresco, consistente perlopiù in tartine al caviale rosso con fettine di limone, e mi sedetti su una sedia in plastica, vicino alle signore. Il garage era in realtà una specie di prefabbricato in plastica, e dentro faceva un caldo d'inferno. Ero lì da un buon quarto d'ora a meditare sui dolori della mia condizione di emozionale indifferenza, quando vidi Patrizia passarmi davanti mentre, nello stesso momento, una delle laboriose massaie -un donnone sui cinquanta, con un'ombra di baffi- disse che davo fastidio, là in mezzo ai preparativi, e dovevo togliermi dalle scatole. Mi alzai mandandola mentalmente in luoghi poco confortevoli, e seguii Patrizia con lo sguardo. Lei proseguì verso la cucina, prese un vassoio con delle tartine, e tornò indietro, venendo verso di me.
Chiaramente non ci pensavo neanche a salutarla, o rivolgerle un bel "Ciao, Trizia (la chiamavo Trizia, un tempo), come va?”, che sarebbe suonato oltremodo falso, e forzato, visto che non me ne importava niente di come le andasse. Sicuramente meglio che a me, comunque. Perlomeno lei stava con un aspirapolvere, io ero solo.
Inaspettatamente Patrizia si sedette sulla sedia occupata precedentemente da me (senza che la virago baffuta avesse nulla da obiettare. Solidarietà femminile?), e senza perdere tempo mi disse:
-Che cosa vuoi? Perché ti trovo sempre fra i piedi?
Vaglielo a spiegare che era stato il caso a portarmi lì!
-Non è esattamente così...- cercai di rispondere.
Lei ovviamente non mi credette. Forse pensava ancora di essere la Madonna.
-Non mi interessa più niente di te. Non ti ho mai amato- sentenziò.
-Lo so.
-Sono felice, ora. Perché continui a intrometterti nella mia vita?
Il livello della sua dialettica era cresciuta, con gli anni. Una volta avrebbe detto 'rompermi i coglioni' al posto di 'intrometterti'.
In maniera inversamente proporzionale era invece diminuita la sua bellezza.
Quando la conobbi era una specie di bambolotta coi capelli biondo sole che le ricadevano a riccioli sulle spalle. Gli occhi erano nocciola vivo e brillante, la bocca rossa e il carnato chiaro, quasi pallido.
Ora si era tagliata i capelli e se li era lisciati, gli occhi si erano scuriti. Era anche notevolmente in carne.
In quel momento non avevo molto da dirle, non ci tenevo affatto, proprio non me ne fregava niente di lei, e speravo se ne accorgesse e tornasse dal suo aspirapolvere, che notavo sempre più nervoso ed impaziente, al tavolo.
Ma lei continuava a restare lì a parlare con me, e ingoiare tartine al caviale.
Parlava, parlava, sembrava un disco, parlava degli anni passati, del suo nuovo lavoro, dell'imminente matrimonio con Emilio, mi ordinava di smetterla di 'intromettermi' e sparire per sempre, perché era chiaro che a lei non importava, né era mai importato, niente di me.
Io ascoltavo, non molto interessato, a dire il vero. La moretta in fondo al cortile, che mi lanciava occhiatine idiote con uno sguardo da pesce lesso, mi sembrava più interessante delle lamentele di Patrizia. Perché in fondo non erano altro.
Finalmente arrivò al punto.
-Chissà se fra noi due avrebbe funzionato..?- mormorò.
-Già, chissà?
-Forse si poteva provare...
-Forse poteVi provare. Capisco che gli anni ti abbiano rincoglionita, ma mi pare fosti tu a tirarti indietro, alla fine. O sbaglio?
-Già, è vero. E ora è troppo tardi, vero?
Se si aspettava che rispondessi con un bel "no” a quella domanda retorica, poi la baciassi e la portassi a vivere con me in Alaska, venne delusa, dato che bofonchiai un "si, è troppo tardi.” e mi allontanai. Lei mi venne dietro, e forse voleva continuare con amenità del tipo: "no che non è troppo tardi, e comunque se io ed Emilio dovessimo... si, insomma, tu saresti il primo, perché prima non dicevo il vero quando affermavo che non ti ho mai amato, lo sai che ti ho amato", ma non riuscì a farlo: Emilio, infatti, si era alzato dal tavolo, ed avanzava minaccioso verso di noi.
-Quanto ti ci vuole per prendere le tartine, insomma? Gli altri stanno aspettando- le intimò.
Evitava sistematicamente di guardarmi.
-Vada pure,- dissi io, -mi farò servire da un'altra cameriera.
Lei ammutolì. Emilio mi lanciò un'occhiata del tipo "ti spacco la faccia!", io risposi con una "provaci, stronzo!” e tutto finì lì.
Uscii dal capannone-garage ed entrai all'interno della casa sul cui cortile si stava svolgendo la festa. Al piano inferiore era in corso una specie di party distaccato, dove trovai un sacco di miei amici.
Ne sequestrai un paio e li portai con me a bere e chiacchierare in un angolo finché, dopo circa due ore, guardando fuori dalla finestra, vidi che i quattro (il ragazzo di cui non conoscevo il nome, la ragazza di cui non ricordavo il nome, Emilio e Patrizia) si erano alzati dal tavolo e stavano dirigendosi verso il portone.
Quando entrarono Patrizia mi salutò. Non risposi al saluto, e continuai a parlare coi miei amici.
La banda dei quattro si diresse all'altro lato della stanza, dove Emilio -che apparentemente non mi aveva visto, o faceva finta- e il ragazzo di cui non conoscevo il nome iniziarono a parlare, accompagnando i loro discorsi con ampi gesti -probabilmente stavano discutendo di calcio. Patrizia mi fissava, e potevo quasi leggerle nella mente.
"Vedi?” dicevano i suoi occhi, "guarda che situazione. Stiamo insieme da due anni, e questo qui già mi considera un accessorio, preferendo parlare di calcio col suo amico invece che coccolarmi”. Ed ancora: "forse avrebbe funzionato fra noi, e credo potrebbe ancora funzionare. Non è troppo tardi, non credo lo sia. L'amore non conosce...”
Proprio in quel momento Emilio si voltò e casualmente mi vide. Poi guardò Patrizia e lo vidi impallidire. Lei non si era accorta di niente. Allora, con un gesto più meschino che stizzoso, la prese per un braccio e cominciò a trascinarla via da lì, con gli altri due tizi che li seguivano, ammutoliti. Patrizia mi lanciò un'ultima occhiata che pareva dire, "salvami, mio eroe, ti prego! Vieni qui e portami via, in Alaska, dove vuoi, ma salvami!"
Io distolsi lo sguardo dai suoi occhi nocciola. L'epoca degli eroi era finita da un pezzo.
Dopo quella volta la rividi in un paio di altre occasioni, principalmente in giro per il paese, o a qualche festa. Seppi in seguito che si era sposata, con Emilio. Non mi mandò nessun invito. Non la rividi mai più.
Non ho la minima idea di dove sia ora, né cosa faccia. Forse ha un figlio, forse più, forse nessuno. Ogni tanto prendo l'unica lettera che mi abbia mai scritto, e vado a leggerla in cucina, mangiando un panino al tonno.